ALESSANDRO D’AVENIA: «LA SCUOLA ERA GIÀ IN CRISI PRIMA DEL COVID. CI POSSONO SALVARE I MAESTRI, NON I BANCHI A ROTELLE»

Alessandro DAveniaLo scrittore ha appena pubblicato il suo ultimo romanzo "L’appello": «Senza relazione con i ragazzi non c’è insegnamento. I tecnicismi, dalla Dad ai banchi a rotelle, non risolvono nulla. Finché ci saranno quiz e concorsoni noi continueremo a produrre parcheggiatori di persone ad ore e non insegnanti, né tantomeno maestri»

L’appello è una delle fisse del professor Alessandro D’Avenia: «Guardo gli studenti negli occhi, uno ad uno, a volte qualcuno si spazientisce». Un atto simbolico per dire che i ragazzi sono più importanti della lezione e che curare le relazioni è una forma d’amore in un tempo ferocemente dominato dalla logica dell’efficienza.

Non è un caso, quindi, che l’ultimo romanzo del prof-scrittore, in libreria dal 3 novembre, s’intitoli L’appello (Mondadori, pp. 348, € 20) ed è provvidenziale che esca in questo momento. La pandemia ha ridotto la scuola, già malconcia, a una zattera che imbarca acqua da tutti i lati con dispute furiose sulla Dad, acronimo che sta per “didattica a distanza”, e i banchi a rotelle. «Il problema non si risolve con i tecnicismi», avverte D’Avenia, «la scuola non ha chiuso a causa del Covid-19, era già chiusa da prima». Nel romanzo, il professore di Scienze Omero-Romeo, anagramma che richiama alla sapienza del mondo greco e della civiltà cristiana, cieco, viene chiamato come supplente a insegnare in una classe-ghetto, in cui sono stati confinati i casi disperati della scuola. L’insegnante inventa un nuovo modo di fare l’appello e quei ragazzi, fino ad allora invisibili per tutti, sono finalmente visti dal professore che non vede.

Un bel paradosso.

«È il dramma che porta con sé l’insegnamento. Senza relazione non c’è scuola».

Nel suo romanzo il contatto fisico, oggi negato dalla pandemia, è un elemento imprescindibile. Come si fa a insegnare con la Dad?

«È facile se prima c’era la relazione con gli studenti, è impossibile se non c’era. Ho sentito tanti lamentarsi della chiusura delle scuole. Ma la scuola non è mai stata aperta negli ultimi anni. Scuola aperta vuol dire che c’è una relazione tra insegnante e studente e questo legame è reale quando si possono constatare gli effetti sulla vita delle persone. La scuola ormai è un luogo autoreferenziale. La gente si lamenta perché con la pandemia è venuta meno la scuola-parcheggio, un posto dove tenere i ragazzi perché gli adulti devono fare altro e dove gli insegnanti, a volte, diventano un ostacolo per le ambizioni dei genitori».

Se dovesse indicare un manuale di sopravvivenza in questo momento?

«Chiamare le persone per nome. Tutto dipende da quanta vita riusciamo a mettere, attraverso la Dad o gli altri mezzi, per mantenere viva questa relazione. Sfruttiamo la pandemia come occasione per rimettere mano a un paziente moribondo: o lo rianimiamo o ne dichiariamo la morte».

Da dove cominciare?

«Noi cristiani siamo stai sparigliati da questo paradigma culturale per cui la logica è l’incarnazione: Dio per stare vicino all’uomo si è incarnato e io per stare vicino ai miei ragazzi devo fare lo stesso. Se la Dad toglie la carne, devo inventarmi qualcosa per raggiungerli. Se penso a soluzioni tecniche e compro i banchi a rotelle sono fuori strada. Infatti, i banchi se ne stanno lì, vuoti, e noi siamo di nuovo a insegnare a distanza».

Lei in questi mesi cosa si è inventato?

«Ci siamo messi a leggere insieme l’Odissea ad alta voce. Io facevo Omero e i ragazzi ognuno un personaggio. Nella Dad puoi prescindere dai volti perché c’è la voce. È stato un modo bellissimo per entrare nel poema. Nel mondo greco, non a caso, l’Iliade e l’Odissea si ascoltavano alla fine dei banchetti. Alcuni hanno scritto un racconto “confezionandolo” come fosse un audiolibro».

Perché è stato importante?

«L’esperienza della voce li ha coinvolti fino a farli riflettere sul rispetto della parola, non puoi pronunciarne nessuna se non ne conosci il significato. Hanno fatto un’esperienza viva proprio grazie al fatto che non potevano farla dal vivo».

Fonte: Famiglia Cristiana