- Questo sito usa cookie per fornirti un'esperienza di navigazione migliore.
- approfondisci
- ok
Liturgia della Domenica 21 Aprile - Il Commento di Don Claudio
Lo Spirito Santo dona all’apostolo Pietro la capacità di dire in maniera chiara, diretta e cristallina: “Questo Gesù è la pietra, che è stata scartata da voi, costruttori, e che è diventata la pietra d’angolo. In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti, sotto il cielo, altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati”.
Solo in Gesù c’è salvezza e in lui, con Giovanni, possiamo dire che siamo realmente figli di Dio! Una verità che abbiamo assunto razionalmente ma di cui spesso non comprendiamo fino in fondo la sua portata. Dei nostri genitori, come è nella legge della vita, possiamo rimanere orfani, in Dio nostro padre siamo figli per l’eternità. Recuperiamo questa grande verità che per il battesimo ci appartiene!
Io sono il buon pastore! Per sette volte Gesù si presenta con l’espressione: “Io sono”. Io sono il pane, la vita, la strada, la verità, la vite, la porta e il pastore buono. E non intende “buono” nel senso di paziente e delicato con pecore e agnelli; non un pastore, ma il pastore, quello vero, l’autentico. Non un pecoraio al quale interessa solo lo stipendio a fine mese, ma quello, l’unico, che mette in conto la sua vita. Sono il pastore bello, dice letteralmente il testo evangelico originale. E noi capiamo che la sua bellezza non sta nell’aspetto, ma nel suo rapporto bello con il gregge, espresso con un verbo di spessore che il Vangelo oggi rilancia per ben cinque volte: io offro! Io non domando, io dono. Io non pretendo, io regalo. Qual è il contenuto di questo dono? Il massimo possibile: “Io offro la vita”. Molto di più che pascoli e acqua, infinitamente di più che erba e ovile sicuro. Il pastore è vero perché compie il gesto più regale e potente: dare, offrire, donare, mettere sulla bilancia la propria vita.
Ecco il “Dio-pastore” che non chiede, offre; non prende niente e dona il meglio; non toglie vita ma dà la sua vita anche a coloro che gliela tolgono. Per comprendere di più: con le parole “io offro la vita” Gesù non si riferisce al suo morire, quel venerdì, inchiodato a un legno. “Dare la vita” potremmo dire è il mestiere, la vocazione di Dio, il suo lavoro, la sua attività inesausta, inteso al modo delle madri, al modo della vite che dà linfa ai tralci (Giovanni), della sorgente che zampilla acqua viva (Samaritana), del tronco d’olivo che trasmette potenza buona al ramo innestato (Paolo). Da lui la vita fluisce inesauribile, potente, illimitata.
Il mercenario vede venire il lupo e fugge perché non gli importa delle pecore. Al pastore invece importano tutte, io gli importo. Io conto per Lui: sono nei suoi pensieri, nelle sue preoccupazioni, nel suo starmi vicino. Verbo bellissimo: essere importanti per qualcuno! E non può non commuoverci immaginare la sua voce che ci rassicura: io mi prenderò cura della tua felicità.
E qui la parabola, la similitudine del pastore bello si apre su di un piano non realistico, spiazzante, eccessivo: nessun pastore sulla terra è disposto a morire per le sue pecore; a battersi sì, ma a morire no; è più importante salvare la vita che il gregge; perdere la vita è qualcosa di irreparabile. E qui entra in gioco il Dio di Gesù, il Dio capovolto, il nostro Dio differente, il pastore che per salvare me, perde se’ stesso.
L’immagine del pastore si apre su uno di quei dettagli che vanno oltre gli aspetti realistici della parabola. Sono quelle feritoie che aprono sulla eccedenza di Dio, sul “di più” che viene da lui, sull’impensabile di un Dio più grande del nostro cuore. Di questo Dio io mi fido, a lui mi affido, credo in lui come un bambino e vorrei mettergli fra le mani tutto me stesso e le persone che mi/ci stanno a cuore.